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Violenza e Violenza assistita: i visti e non visti. L’esperienza raccontata da operatrici di un centro donna della periferia di Napoli

By 2 Aprile 2019 No Comments

Dott.ssa Elisabetta Riccardi, Dott.ssa  Clara Fargnoli
(Associazione di Promozione sociale “Le Kassandre”)

Il progetto “Hermes: linking network to fight sexual and gender stigma” ha avuto come obiettivo generale quello di ricercare e promuovere buone pratiche per  affrontare lo stigma sessuale e di genere, contro la violenza contro le donne e la popolazione GLBTQI. Nelle ultime fasi del progetto, si è dato ampio spazio alla sensibilizzazione da effettuare nelle scuole in relazione ai temi trattati della violenza di genere, dell’omobofia e della trans fobia. Questa esperienza di confronto, condivisione e riflessione è stata un trampolino di lancio per futuri, possibili ed eventuali interventi da finalizzare anche al mondo dell’infanzia, alle future generazioni al fine di promuovere una cultura di non- violenza. A partire da questi presupposti abbiamo voluto incentrare il presente contributo su di un aspetto della violenza che riteniamo, tra le varie violenze, abbia gli effetti più diretti sul nostro prossimo futuro. Stiamo parlando della violenza assistita, quella che colpisce, direttamente, i bambini e che è purtroppo, soprattutto in Italia, tuttora tra i fenomeni sociali più nascosti e non “visti”.

Le indagini effettuate[1] ci dicono che 1 milione 400 mila donne prima dei 16 anni ha subito violenza: il 6,6% delle donne intervistate di cui il 75,2 % da una persona conosciuta e il 23,8% da parenti . Tra queste donne 674 erano madri, e avevano figli con sé al momento della violenza subita dal partner. Di queste il 61, 4% ha dichiarato che i figli hanno assistito a uno e più episodi di violenza.; il 19% dichiara che hanno assistito “raramente”, il 20,1% “a volte” e nel 21, 6% “ spesso”. Nel 15, 9% dei casi gli stessi figli di tali donne hanno subito violenza dal padre.

Nella stessa indagine si indaga sulla relazione tra l’essere testimoni diretti di violenza nell’infanzia e la vittimizzazione degli adulti. Ebbene emerge che il 7,9 % delle donne tra i 16 e i 70 anni ha assistito a violenze tra i genitori. Tra queste il 58,5% sono state vittime di violenza in età adulta. C’è di certo una relazione stretta anche nel caso di chi è autore della violenza. I violenti verso il partner nel 30% dei casi hanno assistito a violenza in famiglia, il 34,8% l’ha direttamente subita dal padre, il 42,4 % l’ha subita dalla madre, e solo il 6 % non ha assistito né subito violenze nella propria famiglia d’origine.

Da questi dati, emerge, dunque, quanto assistere alla violenza domestica in età infantile potrebbe diventare un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti violenti in età adulta e per l’instaurarsi di relazioni di coppia caratterizzate da violenza.

Eppure tali dati, nazionali, ma anche quelli internazionali sono, di certo, importanti ma continuano a risultare pochi, non omogenei e a sottostimare il fenomeno della violenza sulle donne sui bambini. Quante violenze, prima subite dalle donne e di conseguenza dai loro figli, non vengono denunciate?

Il silenzio e l’ invisibilità, ancora troppo frequenti, soprattutto in realtà difficili come quelle delle periferie a rischio dove si è quotidianamente testimoni della difficoltà a riconoscere la violenza, soprattutto in ambito intrafamiliare.

Questo lo sappiamo in quanto operatrici di un’associazione, “Le Kassandre”, che 2004, opera con azioni di contrasto alla violenza rivolte a donne alla periferia di Napoli. Dal 2005, “Le Kassandre” porta avanti l’attività dello Sportello Donna, ubicato presso i  locali della VI Municipalità di Napoli, nel quartiere della periferia ad Est di Napoli Ponticelli che è di certo un contesto a rischio e multiproblematico.

Il quartiere di Ponticelli, presenta, come molte delle periferie delle grandi città, una cultura della marginalità, in cui diventa legittimo solo ciò che la “periferia della mente” può considerare tale.  Anche Ponticelli, come altre periferie e piccole province, ha assistito, negli ultimi anni, allo stravolgimento della sua struttura urbanistica e della composizione demografica del quartiere (per effetto dell’insediamento di una relativamente numerosa comunità di immigrati, e per la crescita demografica negli ultimi decenni da 20.000 a 51.000 abitanti). Nonostante ciò il quartiere condivide con Napoli una serie di elementi culturali e di problematiche sociali e questo ha determinato negli ultimi decenni una immedesimazione sempre più forte in una identità “napoletana”. Del resto  l’incrementata edilizia popolare ha incentivato  situazioni di marginalità e devianza che al loro interno si sono riprodotte negli ultimi decenni. Una “crisi identitaria” che il quartiere esprime attraverso gli alti livelli di disoccupazione, la crescita della criminalità, l’ un aumento dei quartieri dormitorio, l’ assenza di infrastrutture adeguate all’aumento demografico, l’ aumento del numero di stranieri, l’ assenza di luoghi d’integrazione sociale, l’ assenza di relazioni di vicinato e di comunità necessarie alla costruzione di una identità a partire dalle relazioni.

In questi luoghi disegnati per rendere difficile il relazionarsi e il distrarsi, si incitano inconsapevolmente e non, le persone a rincorrere il profitto con qualunque mezzo.

In questi luoghi la violenza è un linguaggio, è un modo “normale” di relazionarsi all’altro, spesso l’unico che si conosce.

In questi luoghi persiste una cultura di genere per cui la coppia in cui persiste violenza segue un tipico modello patriarcale che emula la dominanza dell’uomo sulla donna.

La violenza che viene raccontata dalle donne che si incontrano allo Sportello,  sembrerebbe propria di tali contesti suburbani: una violenza che passa quasi come legittimata da un modello culturale in cui meccanismi di paura e di vergogna sono tali che non permettono interventi di denuncia e di separazione.

Del resto, se pensiamo che il riconoscimento pubblico della violenza assistita è andato affermandosi solo di recente nel nostro paese ed è cresciuto parallelamente al diffondersi delle iniziative delle associazioni femministe e femminili nell’ambito della tutela delle donne che subiscono violenza domestica, prima ancora che dalle istituzioni, pensiamo quanto lo si possa considerare un “fenomeno” in realtà culturalmente violente.

Solo negli ultimi tempi la ricerca scientifica ha contribuito al riconoscimento dei danni che la violenza produce sulle giovani vittime (anche quando solo testimoni), soprattutto quando la violenza si realizza tra le mura domestiche. Eppure, ancora oggi,  anche su questo, assistiamo ad una generale minimizzazione del fenomeno della violenza domestica, ad un non voler vedere quanto di terribile può accadere tra mura “familiari”.

I motivi che hanno condotto il nostro paese ad essere uno tra gli ultimi a porsi tale questione è sicuramente la difficoltà di accettare che la famiglia non sia soltanto il luogo sicuro nel quale bambine, bambini e adolescenti vivono le proprie prime esperienze emozionali, ma anche il luogo ove si consumano le prime contraddizioni e conflittualità che condizioneranno il loro sviluppo comportamentale.

Accade quindi che parallelamente alla violenza sulle donne che stenta ancora ad essere riconosciuta nonostante i dati ne evidenzino un’alta incidenza e così le gravi conseguenze che produce su chi la subisce direttamente e su chi vi assiste, fino al 2000 la violenza assistita in Italia è stata ampiamente sottovalutata. Lo stesso Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, organismo incaricato di predisporre il Piano nazionale di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva (legge 451/1997), si ritiene abbia sottovalutato l’impatto della violenza assistita e risulta ancora assente un sistema nazionale di rilevazione sui minori vittime di maltrattamento.

Sottovalutato per troppo tempo è stato il fatto che i bambini che vivono in famiglie in cui la madre o il fratello / sorella subiscono violenze e/o maltrattamenti si trovano inevitabilmente esposti a diverse forme di violenze: fisiche, verbali, psicologiche, economiche e talvolta sessuali. La violenza a cui si assiste può, nel tempo, diventare anche qualcosa a cui ci si abitua, che si vedrà nel tempo come un comportamento normale così come normale sarà imparare a non esprimere paure, bisogni, pensieri perché sarebbe pericoloso e scatenerebbe violenza.

Del resto, c’è da considerare che gli stessi dati elaborati dall’Istat nello studio nazionale sulla “Sicurezza delle donne” del 2006, rivelano che quasi 7 milioni di donne in un’età compresa tra i sedici e i settanta anni riferiscono di aver subito almeno una volta nella vita violenza fisica o sessuale; ovvero il 31,9% della popolazione femminile italiana. Il dato sconcertante che emerge è che il 96% delle violenze subite non è denunciato e solo poco più del 18% delle donne che hanno subito violenze fisiche o sessuali in famiglia le considera reati. Non ci stancheremo mai abbastanza di ribadire che, nonostante questa alta incidenza sulla popolazione, la violenza sulle donna non viene riconosciuta ma ancor di più non vengono riconosciute le gravi conseguenze che produce sia su chi la subisce direttamente sia su chi vi assiste.

Tale indagine valuta due tipi di violenza: fisica e sessuale dentro e fuori la famiglia. Il numero di donne vittime di violenza cresce ad oltre sette milioni per le violenze psicologiche, descritte come episodi di isolamento, controllo, violenza economica, svalorizzazione e intimidazione.

Nella paura, nella confusione, nel terrore costante in questi bambini e in queste bambine, esposti alla violenza intrafamiliare, si riscontrano frequentemente sintomi quali: ansia, depressione, aggressività, disturbi del comportamento alimentare, incubi, enuresi notturna, comportamenti auto lesivi, basse competenze sociali, vissuti di colpa, di impotenza, bassa autostima, comportamenti adultizzati. L’assistere a violenza può favorire l’emergere di sintomi post traumatici da stress e come detto in precedenza, può diventare fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti simili in età adulta. Sappiamo che il trauma è un evento che crea nella vita psichica di un soggetto una frattura simbolica che fa da spartiacque tra un prima e un dopo, qualcosa che segna un soggetto per sempre, innescando un processo di ripetizione.

A tal proposito il pensiero di Ferenczi (1932) nel suo articolo “ Confusione di lingue tra adulti e bambino” sembra fornirci elementi utili alla comprensione delle situazioni traumatiche vissute da bambini e bambine, senza discriminazioni di genere, in questo caso. Egli, riferendosi a bambini che abbiano subito abusi da parte di figure di attaccamento, fonte contemporaneamente di sofferenza e tenerezza, di erotismo e senso di colpa, vivono una forte ed ingestibile contraddizione. Le figure di attaccamento per questi bambini sono da un lato terrorizzate, impotenti e in costante grave pericolo, dall’altro pericolose e minacciose. Ferenczi descrive lo stato psicologico di questi bambini, la “confusione delle lingue” che vivono tra la tenerezza dell’erotismo infantile e la passionalità dell’erotismo adulto. Una confusione che genera senso di colpa ed è“…il senso di colpa a trasformare, nell’erotismo degli adulti un oggetto di odio e di attaccamento insieme, cioè in un oggetto ambivalente, mentre nello stadio della tenerezza infantile tale dualità non esiste ancora. Ed è proprio l’odio che sorprende, spaventa e traumatizza il bambino amato da un adulto, che trasforma una creatura che gioca spontaneamente, in tutta innocenza, in un automa colpevole di amare che, nell’ansioso tentativo d’imitare l’adulto, finisce per dimenticare se stesso” (Ferenczi, 1932). Confusione traumatica, tra amore, erotismo e violenza, che subiscono o a cui assistitono, espressa attraverso l’iperattività che riscontriamo nei bambini che vivono queste condizioni, la loro angoscia per la separazione, il loro continuo richiamare l’attenzione su di sé che appaiono come tentativi di elaborare ricordi terribili ed intrusivi abitati da fantasmi, un materiale indigesto, difficilmente elaborabile e trasformabile per il bambino e che può rimanerne evolutivamente intrappolato.

Ma come non lasciarli “non visti” in questa trappola?

Il lavoro complesso dei centri antiviolenza, degli sportelli donna, delle associazioni come la nostra vogliono proporre delle opportunità, degli spazi in cui è possibile “vedere” e “dire” attivando percorsi d’intervento che vadano al di là della diade perpetatore-vittima ma che prendano in carico tutto un sistema familiare con figli che a loro volta “vedono ma non sono visti”.

Sembrerebbe, allora, essenziale l’attivazione di servizi per minori ( colloqui diagnostici, di osservazione, di sostegno, psicoterapie), di sostegno alla genitorialità ( riconoscimento della violenza subita , sostegno come madri), interventi educativi all’interno delle case rifugio ( come facilitatori della relazione madre figlio).

In qualità di operatrici di uno sportello donna “ascoltiamo” innanzitutto dalle donne che afferiscono ai nostri servizi, i racconti di violenza vista, subita, assistita, perpetuata. E dalle donne si inizia un lavoro, duro, complesso e articolato, che parte dal portarle ad una reale “visione” in termini di consapevolezza e riconoscimento della violenza, della dipendenza, del gioco di coppia, talvolta perverso, in cui è incastrata e dei possibili danni che la violenza assistita può avere sui propri figli.

Il punto centrale su cui si focalizza il lavoro con le madri che hanno subito violenza è quello di mettere in discussione quel processo di ripetizione che induce a reiterare una dinamica vittima-carnefice con i propri figli. Una ripetizione post-traumatica, intrusiva, che coinvolge anche loro oltre che i propri figli, come abbiamo precedentemente detto. Le madri, nella posizione di vittima, tendono a convogliare, specialmente nei confronti dei figli maschi, il risentimento nei confronti del partner rischiando di produrre forti stati di angoscia nei bambini e creando loro difficoltà di identificazione nel proprio sesso. Spesso la preoccupazione per il figlio assume per le donne che subiscono violenza le caratteristiche di una vera e propria estensione del proprio senso di colpa, altre volte esse stesse possono vivere il figlio proprio come quell’oggetto ambivalente (Ferenczi, 1932).

Il senso di colpa nei confronti delle loro figlie e dei loro figli lo vivono per non essere riuscite a preservarle/i da una tale esperienza. I tentativi di riparazione al proprio senso di colpa, che il più delle volte falliscono, instillano un forte sentimento di inadeguatezza su una propria fragilità post-traumatica e rischiando di reiterare la “dipendenza”, questa volta madre-figlio, da cui la stessa donna vorrebbe emanciparsi.

Il tentativo inconscio da parte delle donne che cercano di uscire dalla dinamica violenta è di evitare, comprensibilmente, il confronto con la mascolinità, anche del figlio, attraverso tentativi di controllo ed inibizione di tale mascolinità. Si sentono minacciate da essa, percependola come danneggiata, malata, mortifera, ma al contempo si sentono colpevoli di volerla annientare, distruggere, come se il loro desiderio di difendersi da relazioni insostenibili al fine di consentire il proprio sviluppo identitario, alimentasse fantasie arcaiche, quelle di provocare attorno a sé malattia e morte.

Il fantasma di Medea sembra aleggiare nelle loro vite. Eppure il gesto di Medea appare come un gesto che, se da un lato fa si che ella obbedisca ad un Fato che ha già condannato lei stessa ed i suoi figli, dall’altro è come se le consentisse di sciogliere proprio i suoi stessi figli, e le future generazioni, dall’inevitabile destino che li incatenerebbe alle colpe degli avi, attraverso l’obbligo di rimediare con la vendetta alle stesse. Rifiutando d’iscriversi in una discendenza diretta, Medea scarica i suoi figli da un’eredità dannosa e li libera da un destino obbligato come una compulsione a ripetere, che ha come motore l’odio materno a loro direttamente trasmesso e, quindi, destinato a divenire odio generazionale (Trapanese, 2007). Medea libera i suoi figli compiendo la sua vendetta; il senso di colpa attanaglia le donne vittime di violenza che tentano di proteggere, anche da loro stesse, i propri figli, creando relazioni dipendenti.

Il senso di inadeguatezza materno trova a questo punto una attualizzazione sociale  negli interventi giudiziari che, in assenza di servizi di supporto per la genitorialità, procedono alla messa in sicurezza del minore anche dalla presunta, per noi ineludibile, “incompetenza” materna.

Fondamentale, a nostro avviso, il lavoro clinico con le madri, dunque, il cui scopo è quello di riconoscere i fili della pericolosa matassa provando a sgomberare il campo da reiterazioni della dinamica subita e dalla sua riattualizzazione.

Andando ancora più all’origine della reiterazione, il pensiero freudiano ci fornisce, a nel nostro lavoro clinico, una chiave importante, che tuttavia non riusciamo in questa sede approfondire, per leggere questa coazione a ripetere a partire dai “fantasmi originari” descritti dal padre della psicoanalisi:  l’evirazione, l’angoscia di castrazione[2]. Fantasmi originari che non consentono a queste madri, nel momento di fuoriuscita dalla violenza e di separazione dal proprio maltrattante,  di simbolizzare quei segnali trasmessi dai propri figli, segnali che appartengono al campo del reale e dell’immaginario, ma che non riescono ad attraversare il loro universo simbolico (Lacan, 1953).

Può essere importante lasciare parlare la madre in presenza del figlio, così da consentire una prima operazione di alleggerimento nella loro relazione, soprattutto perché istituisce la possibilità di una separazione tra madre e figlio/a, che in presenza di situazioni di violenza è resa più difficoltosa dalle disagevoli situazioni di vita e dalla particolare sofferenza psichica. La separazione è un momento costitutivo che sancisce la nascita della bambina/o in quanto soggetto autonomo: se favorita essa può avvenire consentendo alla madre di non mortificare il suo statuto di donna al di là dell’essere madre. Ogni bambino alla nascita viene ad assumere, per la madre, il posto di oggetto particolare, una posizione questa che per rovesciarsi e conferire al bambino lo statuto di soggetto, necessita di qualcosa che interferisca con l’unità che la diade madre/bambino tenderebbe a realizzare e mantenere nel tempo. J. Lacan ci parla di centralità della metafora paterna: il “Nome-del-Padre” è la valenza specifica della paternità, non in quanto persona, soggetto reale, ma simbolo/parola. L’Edipo si inaugura quando la madre fa arrivare al figlio la presenza del padre come terzo soggettificato attraverso il suo nome, introducendo il figlio all’ordine simbolico, al linguaggio. L’Edipo è quindi non solo proibizione, ma opportunità di accesso all’Altro, presenza di un terzo ente che allarga lo spazio di relazione, risposta dell’inconscio al rapporto di “servaggio erotico” del bimbo nei confronti della madre, al “desiderio della madre eccedente la relazione di maternage”.

La funzione del terzo simbolico, data nel nostro lavoro dallo spazio clinico, può consentire al bambino di cogliere che la madre non è colmata da lui/lei, ma anzi che, nonostante lui/lei la madre cerchi altrove l’oggetto del suo desiderio. La madre può dal suo canto, in questa ricerca, testimoniare la possibilità di ritrovare quel terzo simbolico che nel riattivare la triangolazione del desiderio aiuta nel processo di separazione, consentendo in questo modo di riconoscere il figlio in quanto soggetto.

Un lavoro delicato e fondamentale, dunque, quello del recupero delle soggettività che in assenza di spazi per potersi attuare, può favorire al contrario l’attivazione di percorsi di separazione imposti dall’alto e che, nella maggior parte delle situazioni, rischia di mortificare entrambi, madre e figlio, producendo una mancanza simbolicamente non elaborabile.

Le situazioni che abbiamo preso in carico nel corso degli anni ci hanno spinte ad una riflessione sia su ciò che accade tra le mura domestiche in cui l’elemento violenza persiste e da cui sembra difficile uscirne, sia su come operano oggi i centri anti violenza italiani, sulle caratteristiche metodologiche comunemente adoperate tenendo conto del complesso lavoro di rete con i servizi sociali, strutture di accoglienza e sistema giuridico.

Abbiamo osservato che le metodologie e gli interventi, spesso, si muovono su canali differenti per cui lavorare su una progettualità comune non sempre è possibile così come il tener presente che l’essere coppia è un conto, l’essere genitore è un altro.

Da qui quelle situazioni in cui, come accennavamo prima, le donne rischiano di perdere i propri figli perché, secondo la società che classifica i comportamenti entro un modello patriarcale, non li hanno protetti. O come spesso accade i figli vengono visti come proiezione dei loro padri ed agiscono a loro volta comportamenti violenti.  Eppure come donne ferite nella loro femminilità queste madri vedono nella genitorialita’ una possibilità di recupero della loro identità.

Riteniamo, perché questo avvenga, che il nostro lavoro di contrasto alla violenza non prescinda dal recupero della genitorialita’ per restituire a queste ‘famiglie ricostituite’ una propria dignità.

Di conseguenza la necessità di affiancare al nostro lavoro attento a questi aspetti, la presenza di  servizi che possano intervenire sul recupero della dignità delle donne e dei loro figli, senza dover rischiare di subire un ulteriore scacco alla propria stima, quella di esser giudicate genitori inadeguati.

Concludiamo questo intervento dicendo che crediamo fortemente, a partire dalla nostra esperienza, e dalla constatazione che vi è una effettiva scarsità di servizi che consentono di affrontare queste situazioni, che una relazione stabile tra i genitori contribuisce alla salute ed al benessere di un bambino più di ogni altra cosa. Il rischio per la salute dei bambini, e quindi del nostro futuro legato al loro, è determinato principalmente dalle situazioni di violenza e conflitto a cui assistono, non certamente da quale sia l’identità di genere o l’ orientamento sessuale dei loro genitori. E questo lo sottolineiamo tenendo conto che nel nostro paese non esistono leggi che tutelino le coppie di fatto e le adozioni sono consentite solo a coppie eterosessuali con contratto di matrimonio. Sembra che la tutela del bambino e la valutazione delle competenze genitoriali passi più per credenze a priori di quale sia una “sana famiglia tradizionale”, laddove tradizionale sta per eterosessuale, magari da tenere unita anche se le relazioni presenti in essa sono violente, piuttosto che guardare ai bisogni del bambino stesso. Valutare per stereotipi sappiamo che facilita il compito, ma non consente di dare ai bambini la possibilità di essere visti. Speriamo dunque che questi elementi, insieme agli spunti emersi oggi, ci consentano di riflettere sulle contraddizioni a cui siamo oramai forse da troppo tempo abituati.

Bibliografia

 

  • Catarci, P, Lucantoni, C. (1996)  L’intervento terapeutico con i genitori: dalla richiesta alla motivazione. Richard e Piggle, 4,1 , Roma.
  • Deriu Fiorenza, a cura di (2011) “Contro la violenza . I Rapporto dell’Osservatorio sulle vittime di violenza e i loro bambini della Provincia di Roma”. Milano: Angeli.
  • Ferenczi, S., (1932) Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. 12° Congresso dell’API, Wiesbaden.
  • Freud S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale in Opere, Boringhieri, Torino
  • Freud S. (1910-1917) Contributi alla psicologia della vita amorosa in Opere, Boringhieri, Torino
  • Freud S. (1925) Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi in Opere, Boringhieri, Torino
  • Freud S. (1931) Sessualità femminile  in Opere, Boringhieri, Torino
  • Freud S. (1932) Femminilità in Opere, Boringhieri, Torino
  • Lacan, J., (1953) Il seminario. Libro I: Scritti tecnici di Freud Einaudi, Torino
  • Lupinacci, M.A., (1994)  Riflettendo sull’Edipo precoce: la coppia genitoriale nel lavoro nel lavoro dell’analista, Rivista di Psicoanalisi, XL; 1, Roma.
  • NICOLO’ A.M., TRAPANESE, G. (2005) (a cura di) Quale psicoanalisi per quale famiglia? Franco Angeli, Milano

[1] Dall’Indagine ISTAT condotta nel 2006 su “La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia”

[2] Accenniamo al suo testo “il tabù della verginità” (1917) in cui Freud collega lo sviluppo dell’identità femminile alla prima relazione di coppia. Egli afferma che “la deflorazione non ha la sola conseguenza dovuta all’incivilimento di legare durevolmente la donna all’uomo; essa scatena anche una reazione arcaica di ostilità verso l’uomo, la quale può assumere forme patologiche che si mani­festano abbastanza di frequente attraverso fenomeni inibitori della vita amorosa nel matrimonio, e alla quale si può ascrivere il fatto che le seconde nozze così spesso riescano meglio delle prime. Il sorpren­dente tabù della verginità, l’orrore con cui presso i primitivi lo sposo evita la deflorazione, trovano la loro piena giustificazione in questa reazione ostile. È interessante che come analisti ci càpiti di incontrare donne presso cui le opposte reazioni di soggezione e di ostilità sono entrambe giunte a espressione e hanno mantenuto un intimo nesso tra loro. Esistono donne i cui rapporti con il marito sono visibilmente pessimi e che non riescono a liberarsi di lui, nonostante si sforzino di farlo. Appena provano a rivolgere il loro amore a un altro uomo, l’imma­gine del primo, anche se non lo amano più, interviene a inibirle. L’analisi insegna che queste donne sono indubbiamente ancora sog­gette ai loro primi mariti, ma non più per tenerezza. Non riescono a liberarsene perché la loro vendetta su di essi non è compiuta, o addirittura, in casi particolari, perché non hanno consentito all’im­pulso vendicativo di rendersi cosciente” (Freud, 1917).